mercoledì 31 maggio 2017

Esmeralda



Era un giorno d’estate verso mezzogiorno, al Valentino c’era il sole, le aiole sembravano tavolozze spalmate di fiori multicolori, le fontane sprizzavano i loro getti con allegria e si sentiva un gran vociare di bambini che giocavano nei prati.

In quel periodo mi ero stufato di leggere ed avevo ripreso il trip della fotografia che da giovane avevo imparato e poi messo da parte, mi piaceva fotografare le gocce d’acqua, gli insetti sui fiori, gli uccelli in volo, le luci della notte ed i bambini. L’età mi aveva travolto con cingoli da carro armato ed il mio codice estetico m’impediva d’imitare il comportamento dei maiali ed allora cercavo la bellezza nelle immagini, i bambini si prestavano a meraviglia, li sorprendevo in pose naturali che poi al computer trasformavo in elfi e ninfette che giocavano nel classico loco ameno.

Ero appostato in caccia, i nervi all’erta, l’istinto della tigre scorreva vento sulla pelle con la macchina fotografica pronta a colpire quando notai una vecchia zingara cenciosa tutta vestita di nero che avanzava facendo la spola tra le persone per chiedere l’elemosina con la mano tesa. Abbassai l’obiettivo, emanava una pena che sfiorì la magia della caccia e aspettavo che si togliesse di torno ma quella sembrava farlo apposta e stava proprio sulla traiettoria del gruppo di bambini che stavo postando, si muoveva a zig zag ed intanto si avvicinava.

Non ho niente contro gli zingari, sono un effetto ed il male andrebbe ricercato nella causa che li costringe a fare quella vita, chiunque nascesse in un accampamento si comporterebbe come loro, è una questione di imprinting proprio come avviene nei modi raffinati dei nobili, si vede gli altri farli ed il resto è conseguenza.

Notai una certa finezza nei suoi movimenti, era magra, aveva il portamento eretto ed avanzava a saltelli come fanno le ballerine. In quel momento ricordai un racconto di Leskov, “Il viaggiatore incantato”, dove una bella zingara abile ballerina che faceva un sacco di soldi viene venduta ad un principe e poi quando questo si stufa si annega per gelosia, una morte all’Ofelia.

Non raccoglieva gran che, quel mattino erano già passati almeno una ventina di accattoni a battere la piazza, la gente si voltava per non guardarla o la cacciava con male parole, lei continuava imperterrita, oramai erano rimasti solo due anziani su una panchina ed un giovane pittore che stava dipingendo il castello, gli anziani le diedero una monetina, lei ringraziò ed il pittore si rivoltò le tasche facendole vedere che era in bolletta ed eccola qui.

Il viso vecchio e raggrinzito da una fitta ragnatela di finissime rughe, gli occhi spenti e acquosi, pose la mano e con voce querula, da suora abituata a recitare il rosario chiese: “Me lo dai un soldino? Per i bambini, han tanta fame.”

Dimostrava una sessantina d’anni e puzzava da fare schifo, la bocca piena di denti d’oro, chissà da quante bocche di morti eran già passati, negli accampamenti ci devono essere dentisti molto abili, dev’essere un segno di distinzione quello dei denti d’oro, la psicologia degli zingari, non c’è bisogno di guardar  lontano.

L’istintivo fastidio di dover fare una cosa che non dovrebbe esistere, il ricordo della zingara di Leskov mi aveva raddolcito, provai a scherzare come faccio di solito e le dissi: “Ti do la monetina ma tu cosa mi dai in cambio?”

  Lei mi guardò con aria completamente disinteressata, tese ancora la mano gemendo lacrimosa: “I bambini, una monetina per i bambini…”

Sti cazzo di bambini, non dovrebbero esistere elemosine per i bambini, non ero scemo da non sapere che era solo un commercio come tanti altri ma non lo facevano solo gli zingari quindi rimasi sullo scherzo e ribattei: “Deve essere una bella vita, una decina come te al mio servizio potrei vivere come un pascià, dimmi almeno come ti chiami e ti do il soldino.” 

Nel dirlo l’avevo guardata con i miei occhi assassini, lei ebbe un leggero sussulto, nei suoi occhi si vide come un qualcosa che stava rintanato all’interno salire in superficie e si misero a brillare.

“Perchè lo vuoi sapere?” chiese.

“Sono curioso.”

Rimase qualche secondo pensierosa e in un soffio rispose:

“Esmeralda.”

Il juke box dei miliaia di libri che ho in memoria si mise a girare e tirò fuori il disco: “Esmeralda, bel nome, l’amata dal gobbo, poi viene impiccata come Giuda, che strana combinazione.” 

“Me non mi impicchi, perché mi vuoi impiccare?”

“Per vederti dondolare, così mi segni il tempo quando suono la chitarra, scherzavo, ridotta come sei se ti impiccassi ti farei solo un favore ma quelli sono affari tuoi.” 

Aveva cambiato voce, da querula e pietosa divenne spigliata, i toni rochi dall’età ma con sfumature vagamente femminili, disse: “Se vuoi ti posso leggere la mano, dammi la destra.” 

Tono di comando, per un attimo mi sorprese, l’idea mi piacque e gliela posi.

Lei la prese tra le sue, erano dure ed ossute con lunghe unghie annerite di sporcizia, la strinse come volesse berne il calore poi la aprì e con un dito si mise a solcare le linee: “Tu devi essere fortunato,” disse con tono convinto, “qui si legge che presto conoscerai qualcuno che ti farà avere un sacco di soldi.”

Mi misi a ridere e ribattei: “Scommetto che lo dici a tutti i grulli che si fanno leggere la mano, chi dovrei conoscere?”

Rimase un attimo a pensare poi mi guardò con aria di sfida e disse: “Me!”

La cosa era proprio divertente così continuai: “Vuoi dire che andrai a chiedere l’elemosina per me? Non sono il tipo e poi ormai c’è troppa concorrenza.”

“Tu non sai ma io faccio le uova d’oro!”

“Cosa sei, una gallina?”

“Sono una donna, adesso sono vecchia, ma un tempo…”

“Se fai le uova d’oro perché vai in giro a chiedere l’elemosina?”

Lei si sedette al mio fianco e con aria di chi sta per rivelare un grande segreto che non deve sentire nessun altro rispose: “Le faccio ma per farle ho bisogno che qualcuno mi aiuti, fin’ora nessuno lo ha voluto fare ed io non le voglio dare per niente.”

Mi stava prendendo in giro ma era divertente e così stavo al gioco:

“Da dove le fai?”

“Le faccio…lo vedo che non mi credi…” si frugò in una tasca e tirò fuori una minuscolo granello dorato mettendomelo sotto il naso, odorava di uova marce, disgustoso. Lo chiuse nel pugno e continuò: “Non sono proprio uova ma io le chiamo così, questa l’ho fatta stamattina, ho usato le mani ma se lo faccio da me non viene bene, sono sicura che se tu mi aiutassi verrebbero enormi, potremmo venderle e fare un sacco di soldi poi dividiamo a metà.”

“Fammi vedere la pepita”

Riaprì la mano e me la fece toccare, sembrava proprio oro, mi stava prendendo in giro ma volevo vedere dove sarebbe arrivata: “Come hai fatto a farla?”

“Te l’ho detto, con le mani, ho fatto da sola.”

Qualcosa in me aveva capito l’antifona ma non riuscivo a credere che sarebbe stata capace di tanto, chiesi: “Con le mani, che vuol dire, trasformi le pietre in oro?”

“Non essere scemo!” esclamò decisa, “con le mani…mi escono da…come dire? mi escono da lì, cerca di capire, mi tocco e loro vengono giù però se tu mi aiutassi…”

“Vuoi dire che ti escono dalla figa?”

  “Proprio così! È un segreto, non l’ho mai detto a nessuno però adesso sono vecchia e prima di morire mi piacerebbe provare…”

“Che cosa dovrei fare?” domandai sbalordito.

“Ebbene…se tu me la leccassi sono sicura che uscirebbero che pesano un chilo, poi andiamo da quelli che cambiano l’oro e pensa la cuccagna.”

L’Arte o canone è un gioco per fini intenditori e tra le righe ce ne sarebbe già da scrivere un romanzo, per farla breve ci fu una contrattazione, intuito puro, avevo iniziato il gioco e sarei stato un vile se mi fossi tirato indietro così finsi di accettare sicuro che alla fine si sarebbe rifiutata per la vergogna, ci riparammo dietro una siepe in un posto lontano da sguardi, lei si tirò su la gonna e calò le braghe frettolosamente poi si coricò a terra aprendo le gambe. Un tanfo da far vomitare i cani eppure mi sentivo attratto, avvicinai la bocca alla sua vagina, questa si spalancò e disse:
 
“Cagar di bocca fa gelosia
tu puoi veder filosofia
dentro la bara ch’è chiusa al fato
per respirar quel che è il tuo fiato.”
 


Panta rei.




Così è,
volando sul cursore di un clip che avanza nel giorno,
temprato al fuoco dell’inferno di un'unica pagina,
un poco scazzato, è vero, ma non piegato
dal frantumar di specchi che suona la banda…


 

lunedì 29 maggio 2017

L'impotenza.


Girovago sostantivo sulla riva che torna sui propri passi per ricamminare sull’orme di prima, tema ricorrente della poesia, i lamenti di Catullo verso Lesbia, di Adamo verso Eva, “L’avessi fatto ad un altro quello che hai fatto a me…” canta Totò in quella famosa canzone, leiv motiv che si ripete da miliaia di anni, facile venirne influenzati.

Il canone guarda la figura senza giudizio, sembra che all’origine ci sia un tradimento, cos’è un tradimento? Si vede una convenzione, si sono messi tutti d’accordo a chiamar tradimento una certa cosa ed il resto si adatta. La gelosia ad esempio, chi ha detto che bisogna essere gelosi? Che bello andare a caccia e farsi tutte quelle che frulla, nei fatti poi si vede proprio quello ben mascherato da un’ipocrita faccia di fedeltà simulata, l’abitudine alla menzogna, la bambola nel pensiero che agisce da soggetto sul corpo invertito in oggetto.

La figura di quel che pensano gli altri, la vergogna, l’orgoglio eccetera, si vede una nuvola di cani latranti nel giudizio, guarda caso la figura di Dio che fa la domanda, chi ti ha detto che bisogna vergognarsi? Salti di significato, il bacio di Giuda, il bacio della donna ragno, il bacio di un ermafrodito, nella logica del nominalismo il nome è forma, Cristo è Giuda, la donna è uomo, la donna tradita si identifica in Cristo e l’uomo diventa Giuda e va impiccato mentre la donna si crocifigge, si tratta sempre di una persona sola, l’impiccato è boia e tirapiedi, tutto avviene nel pensiero, un automatismo conseguente la mentalità.

La vendetta del dio ermafrodita, l’abito immacolato della madonna, il cazzo dei negri da succhiare per ripicca, il cazzo dei morti, necrofilia logica, il significato si sposta al tradimento originale, l’origine della tragedia, nel mito il canto orfico, forse Orfeo che si volta rimandando Euridice all’inferno, seppellita due volte come la Beatrice di Dante, una sottoterra ed una in paradiso a far da ideale platonico. La vacca tormentata dai tafani della gelosia di Era, Io, io sono il dio tuo, non avrai altri…

A livello medico, psicologicamente, per adattarsi la figura deve prima negare il corpo, un corpo crocefisso che si trasforma in pietra per non sentire il dolore, medicine o non medicine è comunque un manicomio. Il nome non è forma, la causa che nega il corpo non è la gelosia.

domenica 28 maggio 2017

La caccia.


L’idea non sempre c’è allora bisogna andare a caccia. Ogni animale creatore ha le sue tecniche, c’è chi le posta ai guadi dove passano di solito, chi va a fiuto, chi mette le trappole, chi usa il cane, chi va in branco eccetera, noi di solito ci mettiamo bene in vista ed aspettiamo e le prede non tardano ad arrivare, poi è solo questione di scelta.

L’Arte disegna la figura di una baracca piena di burattini, sollevando il tetto si può vedere dentro, un occhiata di sfuggita, idea poco interessante, una calca, lunghe file di maiali indirizzati al macello, non ci piace. Idea nuova, fuori dalla baracca c’è una fontana che sprizza giovinezza, fresco profumo d’uovo appena sfornato, pic pic pic fa il becco sul guscio, s’apre ed esce il pulcino, un piacere vederlo piumare, il pennello del pittore sul colore delle ali, la musica del vento mentre si solleva per volare, le probabilità continuano senza direzione, senza rami per posarsi, poi si vede un’onda alzarsi dalla poesia e…

A questo punto si vede una bella pollastra avvicinarsi incuriosita, l’uccello diventa subito duro e la trafigge senza pietà.

 

sabato 27 maggio 2017

L'ermafrodito.



Fiutavo quel nome, “Quanto è bella giovinezza che pur passa tuttavia”, strutturato sul “Mein Kampf” che calava profondo in una tazza di caghetta di cane piena di vermi da bere d’un fiato, s’alzava un crocifisso lugubre, saltellava sulla punta all’inseguimento della porta aperta fino all’eden…accozzaglia di bestie rumorosa rigurgitata tra rutti e scorregge, tutta la storia in un solo boccone, vacche gelose d’un sol castrone, lingua feroce, meglio odiati che fare pena.
 
 

torino by night.


venerdì 26 maggio 2017

Il piacere di creare.




Un tocco di magia
giocando tra le novità
astronave tra le stelle
la carrozza fatata
sul ponte dell’odio…
 
guardando bene va da sé
nulla sollucchera che il piacere di creare,
 
certo lo so
pacioccando la tua carne farei meglio,
volare,
proprio così.
 
 

giovedì 25 maggio 2017

Il valore.


 
Avevo preso carta e penna per scrivere una poesia, avevo la frase:

“Una nuvola di niente offusca…”

 ero indeciso se continuarla: “Offusca l’aria…” oppure: “Offusca il cielo…” cercavo qualcosa di meno banale da farle offuscare e tra me ragionavo: “Una nuvola di niente come fa ad offuscare? Eppure questa deve per forza offuscare altrimenti come faccio a scrivere…” Guardavo le probabilità, doveva essere un niente contenuto da un hardware quindi era un software, immaginavo un campo magnetico nel cui interno, dal nulla, si udivano bisbiglii sommessi d’elettricità, non so se elettricità sia la parola giusta comunque qualcosa che aveva a che fare con l’energia però non si vedeva niente e non si poteva dire, lasciai in sospeso il complemento oggetto e mi limitai ad “Offusca…” poi scrissi il verso seguente:

“Canna rollata in un tubo di vetro
accesa con un biglietto da cento dollari trovato per strada…”
 
la frase era venuta così, la guardavo incredulo, è vero, qualche volta l’ho fatto, non con un centone ma usavo i biglietti da dieci mila, forse un dejà vu, era uno sballo guardare bruciare il deca, l’avevo visto fare in un film da un capitalista americano che si accendeva il sigaro appunto con il centone, cercavo di collegarlo alla nuvola di niente mentre il centone bruciava, il senso, il valore dei soldi ed il valore di chi li sa fare, i soldi si vedono, il valore invece è relativo, lo si vede solo a prova fatta, ha la forma dei soldi ma non sono i soldi, inoltre non sempre chi ha i soldi è detto che li sappia fare. Il centone era bruciato, il suo valore si era volatizzato per aria e finalmente la vidi allora scrissi il verso seguente:

“fumata alla finestra, fumo di ieri precipita nell’abisso del passato…”

 Il tempo, ecco, anche lui, la frase si evolveva dalla precedente, chiusi la finestra sul deposito di Paperon de Paperoni, l’hardware scoppiò, guardai il valore di oggi dentro la bolla di sapone e continuai:

“montagna di parole brucia tra bagliori di lampi,
lastrico stampato di credenza
nudo tra la cenere
catena sciolta fuori dalla cuccia del cane…”
 

mercoledì 24 maggio 2017

Strip tease.


Nudo  ancora troppi vestiti
strip tease a filo di pelo
via la terra via l’acqua
con giravolte mortali il palloncino si sgonfia
su tra le nuvole s’accende il fuoco da spegnere piano
sparso nell’aria di questa canzone
le ossa di parole dimenticate
macinate riprese e calzate
morbido velluto la pelle dei sensi
si tocca una volta ed esplode nell’aria
in una pioggia di stelle
il ruggito strappato alla madre.
 
Una madre feroce la natura
unghioni e zanne di tigre
la delicatezza d’un vulcano che esplode
per riabbracciarci in un solo sorriso.
 
 
 

lunedì 22 maggio 2017

Merdaccia beach.



Voltata pagina un nuovo giorno
si mette in acqua la barchetta
si spiega la vela al vento
e la si lascia andare dove va…
 

sabato 20 maggio 2017

Il chip.



C’è un mucchio di stracci rincazzati appesi al filo d’un aquilone
stesi per aria asciugano al vento male parole su quell’incorno
vox populi vox dei parla dall’alto il dito puntato alla pustola gonfia
un mucchio di cani c’abbaia furioso il tutto nel chicco d’uno stronzo di riso…
 
Oh mala parata la mela mangiata
il male s’immola per altra mandata
sul ciuccio del tempo che s’apre alla figa
il cazzo che entra si gonfia da sé…
 
Baci e carezze d’annata scordata
s’accorda col la che suona il sofà
mentre ti sfondo davanti e didietro
con grande trombare di fuoco e…
 
Il vetro s’appanna al fiato che spreco
per dire che al nulla non devo ragione,
chi parla chi ascolta è proprio un coglione.
 
 

venerdì 19 maggio 2017

Senza prima che rima.


 
Può essere nel silenzio del loculo vuoto
l’attesa del tempo che manca
immaginando già d’esser lì
nuda la pietra ridotta in polvere
che il vento alza al sublime parlare
non dice ma s’apre al spettacolare tramonto
d’un fuoco di paglia.
 
Frizzante lo specchio di tanta bellezza
un lago di stelle la zattera sale
sul ramo che è spoglio d’idea,
sul ciglio del nulla l’orizzonte si ferma a guardare
il piacere sorridere nella culla,
è nato nel nuovo cantando e ballando un sogno di carne,
una giostra di incanti,
il piede del naufrago si posa alla terra.
 
Ebbene così,
simulacro di nulla,
dalla merda cagata di fresco germoglia il seme…
 
 

giovedì 18 maggio 2017

L'anima gemella.


Questa è la storia di un burattinaio che si innamorò di una burattina in tutù bianco
mentre gli struzzi, la testa sotto terra, non guardavano,
così prese l’ascensore per scendere da lei mentre la ballerina saliva da lui.

 
Tra le facce da culo alzate degli struzzi che non guardano
c’è un ring capovolto a testa in giù
che vede il cielo nel centro della terra,

 
non c’è idea ne poesia,
sabbia arida e brullo gracchiare d’uccellacci spennati,
lunga teoria di tacchini boriosi diretti alla pentola fumante in fondo al cammino,
botte da orbi, facce e rinfacce, orgoglio vergogna e tanta scarogna…

 
Causa di forza maggior non chiede scusa,
bussa alla porta di quell’intrusa,
vaga la bambola raccattata a terra nel ciel che non splende se non d’invidia,
oggi è parlar  corto del creder vero quel che non è,
rallegra la stanza di quel che scrive la sua libertà
a guardar vicino quel che sarà.

 
Appesa alla gruccia con gli altri la burattina tornò
e tutta la storia finisce così.
 
 

mercoledì 17 maggio 2017

Il contrappeso.



Al mercatino di Porcozio si vendono parole a peso,
“ehilà scimuniti state a sentire questa…”
tante orecchie bilanciate ad ascoltare grave e leggero
girano la ruota delle sfere giù all’inferno e su in paradiso
bene disposte nelle cassette date in asta all’offerente…
 
Qui il soggetto dà di petto contro scorno che s’è preso,
là l’oggetto canta in coro tutto il tempo che gli resta,
comprare piace quel che il gusto sente intero
per la luce che s’accende quando vedo il suo sorriso
se non fosse per il peto che nel giro si risente…
 
 
Rende bene quel che costa a pagare a cuor leggero
pochi spiccioli indorati sulla tavola a far niente,
pieno è il sacco della spesa che s’è fatta,
aria fritta da gustare sulla lingua di una gatta…
 
 
 

martedì 16 maggio 2017

Il cucuzzolo.


 



Ero a letto con una che me lo stava succhiando, la luce fioca di un’abat jour spruzzava le tinte di colori eccitanti mentre ascoltavo i gorgoglii ed i sospiri di lei, nel mentre le accarezzavo i capelli dirigendola ai punti più caldi ed intanto fumavo una canna, leggermente fuso guardavo sul muro di fronte l’ombra della sua testa andare su e giù ondulando, l’ispirazione s’alzava volando e nel piacere crescente, d’improvviso, vidi un teatrino dove c’era un burattinaio che muoveva i fili di due burattini, poi uno uccise l’altro ed il burattinaio alzò l’assassino e lo schiaffeggiò maledicendolo in eterno. Alla porta del teatrino erano affisse le locandine dello spettacolo, si leggeva:

“La noia. Opera prima in molte puntate.”

 
Il teatrino stava sul cucuzzolo della mentalità, aprii gli occhi che me lo stavo menando, non c’erano luci, in quel momento mi venni in bocca e glielo sputai addosso centrandolo in pieno.

 

domenica 14 maggio 2017

Lolita.


Quel mattino ero al Valentino, erano circa le undici, c’era il sole, non faceva ne freddo ne caldo ed un piacevole venticello portava il profumo delle rose che stavano fiorendo nei giardini oltre alle note altalenanti di un fisarmonicista che suonava alla porta del castello. Stavo sotto un albero con la schiena appoggiata al tronco vicino alla fontana e leggevo un racconto di Isaac Singer, il figlio del rabbino, che parlava di morti che uscivano dalle tombe, dybbuk che entravano nelle persone e gli facevano fare le cose più assurde, era opprimente ma ero interessato alla cultura ebraica e continuavo a leggere, finalmente arrivai al termine, chiusi il libro e rimasi per un po’ a guardare la fontana cercando di non pensare a nulla.  

Un centinaio di metri più avanti in un prato cosparso di margherite c’era una bambina che giocava con un pallone, avrà avuto sui dieci dodici anni ed era già abbastanza formosetta, era bionda coi capelli lunghi e fluenti ed era vestita con una camiciola bianca a righe rosse ed aveva una minigonna vertiginosa sulle lunghe gambe nude. Correva ed ogni volta che raccoglieva il pallone si chinava mostrando in pieno il fiore delle sue mutandine bianche.  Cercai inutilmente di distogliere lo sguardo e devo confessare che sentivo un prurito innominabile che mi gonfiava il pacco nei pantaloni. Per svagare la tentazione ammiravo il contrasto tra il bianco delle margherite e quello delle sue mutandine e, parrà incredibile, ne sentivo distintamente il profumo, da impazzire! 

Cercai di metterla sull’intellettuale, le margherite, mi venne in mente la Margherita di Faust e la tentazione di Mefistofele, il patto col diavolo, la cosa era terribilmente arrappante e quella continuava a chinarsi e si avvicinava quasi lo facesse apposta. Avevo la mente che lavorava al galoppo in cerca di giustificazioni, ricordai una poesia di Catullo dove la labbra di una bambina in fiore erano insudiciate dallo sperma di un vecchio porcaccione, poi la Lolita di Nabocov e il Demonio di Bukowski, improvvisamente la cosa iniziò ad interessarmi e spostai l’attenzione. Presi carta e penna ed iniziai a scrivere una poesia, il testo originale l’ho perduto ma diceva all’incirca così:
 
“Brama la tigre in caccia nella giungla scarlatta
dietro la preda di cui a visto la fatta,
sangue d’intorno scorre
dalle viscere della torre,
istinto che ascolta la tromba
suonare gira e rigira nella tomba,
morto non fui, solo addormentato
e pronto son ora a sollevar…”
 
  Ricordo precisamente che non mi veniva la rima, mi ero lasciato trascinare e non avevo calcolato la prima quando davanti ai miei piedi si aprì una fossa e come fosse sputato dalla terra uscì fuori una statua di pietra che subito disse:
“Io sono Giulio Cesare, il disgustato!”
 
 La bambina si stava allontanando con il pallone in mano richiamata dalle urla della madre, sculettava e come sculettava, avevo le bave che colavano incandescenti e sentivo tutti gli intestini agitarsi come grovigli di serpi che volevano uscire dall’uovo. Il vento era cessato, non si sentiva più uccello cantare, intanto eravamo passati al Don Giovanni e questo si chiamava Giulio Cesare. Un bel problema. Mentre l’intuito lavorava in sordina gli dissi: “Giulio Cesare è morto da più di duemila anni, forse sei un matto scappato dal Cottolengo, di la verità.”
 
Lui parve arrossire come fanno le pietre vicino al fuoco e rispose: “Io sono un cantastorie, stavo sulle porte della città e le raccontavo a chi aveva i soldi per pagare, certe le scrivevo su rotoli di carta e quelle le vendevo più care, non si guadagnava granché ma si tirava avanti.”  
 
L’intuito mi stava aprendo la porta di una storia incredibile, intanto i miei visceri continuavano a contorcersi, la bambina era tornata sul prato a giocare ed il bianco delle sue mutandine che tornivano un culetto al primo fiore bello come una bistecca al sangue mi stavano raggrinzendo la pelle, sentivo artigli invisibili che si sfoderavano, lunghi denti feroci alla brama di quel sangue…  
 
 
Questa storia finisce così, arrivò uno squadrone di scolari scortati dagli insegnanti che ruppero subito le righe per mettersi a giocare sul prato, la bambina si mescolò a loro e non la vidi più, la cosa mi fece desiderare di rinascere ma per il momento dovevo accontentarmi di com’ero, il buco si era rinchiuso e la statua non parlava, quando mai si sono viste statue che parlano? doveva essere fantasia, forse avevo sognato, a quei tempi non avevo ancora pratica dei capricci dell’Arte ma ora, rileggendo queste righe, la tigre che vive sotto le mie braci si è messa in caccia ed il profumo che sente è tutta una sorpresa.

venerdì 12 maggio 2017

A Lesbia.



 

Aveva una pustola tra le gambe
gonfia è violacea,
ce ne stava un litro e faceva proprio schifo
eppure a me piaceva leccarla,
l’addentavo tra incisivi delicati e mordevo,
stillava pus dorato che succhiavo
e lo stomaco beavo
e lui ruttava l’amore del te,
poi ti giravo
e le chiappe t’aprivo alle emorroidi giulive,
in punta di lingua il culo scavavo
e tra i denti le scoppiavo,
oh dolce estasi del divino parlare,
santa poesia il tuo sangue scorreva
giù per il tubo allo scrosciar degli enzimi,
nulla è pensier se non ci pensi
solo parole di tante lettere grate
che dal fetore del mio fiato
tutte per te ho dedicato.
 

giovedì 11 maggio 2017

L'effimera.

 
Sono un puparo o meglio lo ero perché adesso…

All’inizio giravo col carro, entravo nelle piazze col somaro al gran passo, avevo inventato tutto un ingranaggio che girava con le ruote mettendo in azione sonagli, tamburelli, campane e richiamavo un sacco di gente, soprattutto i bambini che correvano a frotte ed era proprio un piacere ascoltare i loro trilli coi miei balocchi, poi aprivo i teloni del carro con una religiosità che sembrava s’alzasse il sipario della Scala di Milano e iniziava lo spettacolo, c’era…e ci sono ancora ma adesso, come dire…vedremo più avanti, Carlo Magno sul trono e Orlando, Rinaldo e Gano il traditore, Astolfo sul cavallo alato che si portava sempre tutti sulla luna con lui e la bella Angelica, Medoro, la maga Alcina, avreste dovuto sentire come risuonavano le spade nei combattimenti e come si lamentava Orlando impazzito contro la bella Angelica fuggita col moro, sembrava Adamo cacciato dal paradiso dopo aver mangiato la mela che imprecava contro Eva.

Di imparare a memoria non m’è mai andato giù e poi mi veniva a noia, improvvisavo ed ogni volta li facevo dire diverso ma la storia era sempre quella e dopo un po’ rimasero tutti in casa a guardare la televisione ed ai miei spettacoli non venne più nessuno.  Iniziai a vivere d’aria, la fame è brutta, di fare altri lavori non ero capace ed ormai ero vecchio per cominciare qualsiasi cosa, cominciai a vendere tutto quello che avevo di superfluo anche il somaro ed alla fine mi rimase il carro come casa ed i pupi e mi rintanai in una foresta vicino ad una fonte d’acqua pura.  

Con le trappole riuscivo a catturare qualche uccello e poi c’erano le castagne, i funghi, la frutta, in qualche modo tiravo avanti ma la noia, quella…la sera al buio accendevo un fuoco, c’era la musica della sorgente e disponevo tutti i pupi intorno a me, il fuoco li animava ed i loro occhi brillavano quando mi guardavano come se fossero vivi, arrostivo un uccello, sgranocchiavo qualche castagna, mi dissetavo alla fonte e poi arrivava la notte, l’attesa e la noia…per fortuna i pupi non mangiano e a loro non dovevo pensare, li pulivo, li lavavo, li pettinavo, quello sì ma m’aiutava a passare il tempo e non mi lamentavo.  

Quel che mancava erano le donne, di mogli come di catene non ne ho mai voluto sapere, prima alla fine di ogni spettacolo mettevo via il necessario e con il superfluo facevo il giro delle puttane, ne conoscevo in tutti i paesi e se avevo i soldi erano sempre ben disposte ma poi…ebbene, iniziai a masturbarmi, avvenne per gradi, dopo cena per non perdere il mestiere recitavo ai pupi le loro parti, tenevo in mano i loro fili e li facevo muovere come fanno gli spettatori ed anche applaudire poi forse cominciai a dare di testa e divenni furioso come Orlando, prendevo la bella Angelica e la facevo fottere con Medoro davanti ai suoi occhi poi mi fingevo d’essere lui e roso dalla gelosia li separavo e facevo mille pazzie fin quando mi misi al posto di Medoro ed allora aprivo le gambe ad Angelica e me la facevo in mille modi, ed anche Mellissa, e le maghe e me ne fregavo di Orlando e del suo senno ed intanto, senza che me ne accorgessi, tutti quei loro fili mi si attorcigliavano intorno al corpo e si facevano sempre più stretti come i miei movimenti tanto che sembravo una mummia e potevo solo più strisciare come fanno i vermi.  

La fame era diminuita, m’accontentavo di poco, erbette radici, qualche lumaca… Una notte mentre attizzavo il fuoco col fiato invisibile dei pupi che aleggiava intorno dalla fonte uscì una ninfa, era bellissima, completamente nuda e completamente fatta d’acqua ma l’acqua stava su da sola, non era liquida e come mi accorsi presto la si poteva toccare ed anche…alle favole non ci ho mai creduto però per il mio mestiere ne conosco tante e la riconobbi subito, lei si sedette vicino, guardava il fuoco, rideva come fanno le cascatelle quando rimbalzano sui sassi, sembrava imbarazzata come me, la guardavo, non sapevo che dirle e lei era proprio bella, aveva un viso che sembrava un angelo, faceva volare e mi sentivo proprio innalzare per aria inoltre era estremamente eccitante, ogni curva al posto giusto, una bocca, un culo…mi venne subito duro, sembrava che comunicassimo col pensiero e lei non si fece pregare, anzi, leggera come una farfalla che si posa sul fiore mi aprì i pantaloni ed iniziò subito a succhiarmelo, mai nessuna puttana l’aveva fatto così bene poi si mise a cavalcioni e se lo infilò nella vagina, l’aveva stretta ma scorreva morbida e vellutata, ebbi non so quanti orgasmi ed anche lei, gorgogliava come fa l’acqua ed era torrente e poi rapida e tumultuosa e poi onda e mi scorreva sul corpo avanti ed indietro e non finiva mai.

Mi svegliai al mattino e le non c’era, i fili si erano fatti sempre più stretti, i pupi ormai mi stavano appiccicati, qualcuno aveva cominciato a dipanarsi come da una matassa e tutto m’avvolgeva e non potevo far altro che aspettare la notte e la mia ninfa. Lei veniva puntualmente ed ogni notte era spettacolo, passarono i giorni, i mesi, i pupi si erano completamente dipanati avvolgendosi intorno a me, sembravo proprio un bozzolo, la ninfa si posava a cavalcioni sopra e sembrava covasse, ormai l’amore lo facevamo solo col pensiero, lei mi stringeva e ci davamo fino al mattino senza fermarci mai ed al risveglio non c’era.  

Un mattino, proprio questa mattina per essere precisi, mi sono svegliato che sentivo un prurito strano intorno al corpo, un energia che non avevo mai provato, un forza…provai a battere contro le pareti dell’uovo e quelle si incrinarono, feci pressione e si aprì un buco, lo allargai e riuscì ad uscire…incredibile, ero tutto un altro, nudo, bellissimo, avevo le ali e le aprì subito per volare, volai sopra mari e montagne, feci il giro del mondo, so d’essere un’ effimera e che ho solo questo giorno e adesso, mentre le ali stanno perdendo forza e sto lentamente planando a terra già vedo il ragno che mi aspetta per tessere la tela della prossima storia.

  


mercoledì 10 maggio 2017

Lo strucco.


 
Grotta buia, silenzio, nessuna origine, si indovinano ombre nell’aria che volano frusciando sulla pelle nuda, brividi d’un racconto di Poe dimenticato in un cassetto, le pareti si stringono ma non si vede, non c’è luce poi si sente gocciolare, splash, la goccia tintinna monetina saputella e s’allunga una lunga lingua fino all’orizzonte, tra le tenebre pare, soltanto pare, sorgere l’alba, l’acqua scroscia distante e s’avvicina un fiume, nell’attesa s’accende una lampada nel camerino, appare uno specchio
e l’attore entra per struccarsi.

 
Immagini dipinte da un madonnaro sulla strada che i piedi calzati di ferro del tempo calpestano, sbiadite, semicancellate le maschere, un rotolo di carta ricoperta da scarabocchi s’allunga a tappeto, parole, nomi, frasi che si svegliano tra la polvere, qualcuna tossisce, altre starnutiscono nel via vai di macchine che s’apre alla città poi s’alza un elicottero e si vede da lontano, diventare sempre più piccolo, laggiù, il mondo.

 
Nello spazio aereo sulle nuvole si vola leggeri, le ali aperte, tra gli spruzzi di spuma iridati dalla poesia, solo l’attimo creativo, solo lui, la sorgente che s’alza brillando verso le stelle, un oceano di fuoco sull’onda che avanza…

martedì 9 maggio 2017

Cotolette di coscia d’agnello impanate con patate novelle fritte al burro.


Cotolette di coscia d’agnello impanate con patate novelle fritte al burro. Piatto di stagione, buono così così, l’agnello non è che mi piaccia granché, preferisco le bistecche al sangue belle spesse ma ogni tanto fa bene tenersi leggeri. Secondo i criteri della cucina alla vattelapesca si può friggere come in questo caso oppure fare alla griglia o al forno o al cartoccio eccetera, le patate novelle invece le faccio solo al burro, queste mi piacciono e di solito mi abbuffo.

Da non confondere con l’agnello di dio che toglie i peccati dal mondo, il “pharmakos” che gli ebrei prima di ogni pogrom mandano a morire nel deserto con il carico delle loro colpe per potersi così ripristinare al futuro, pharmakos era detto anche il tetrafarmaco di Epicuro, non si vede un collegamento diretto ma a quei tempi negli ospedali santuari si curava solo con l’oppio, un analgesico che toglie tutti i mali e qui ci sarebbe da discutere un bel po’ ma non ne ho voglia.

Di interessante c’è l’assonanza con Masaniello, il pescivendolo che solleva la plebe napoletana e quindi con gli Agnelli della Fiat che dopo aver sollevato i terroni a Torino fanno la fine del pescivendolo. Che terroni sia una storpiatura con trasferimento di vocali di Tirreni, gli antichi abitanti dell’Italia centro meridionale abbiamo già discusso, la cosa si collega ai veneti che per antonomasia sono definiti i terroni del nord, forse un antica colonia di Tirreni trasferita a Venezia oppure in Cadore però anche i Taurini, gli antichi abitanti di Torino suona con terroni e quindi con Tai di Cadore dove ho passato un più o meno bello periodo e qui le cose si ingarbugliano riportando ai galli cisalpini che formavano le legioni di Giulio Cesare.

Potevano essere Taurini poi dopo la castrazione rinominati in Boi e quindi agli accampamenti poi diventati città che vennero innalzati da quei soldati, i cosiddetti castri. La probabilità non è accertata al cento per cento, a Torino tra i terroni ci sono anche tanti veneti e dal mio esempio e dalle idee che portai in Cadore per poi fare la fine del pescivendolo forse qualcosa di vero c’è.

Per fortuna il mio nome non suona con agnello ma, come si suol dire, prevenire è meglio di curare.  

Visto il numero di terroni che vivono a Torino, circa i tre quarti della popolazione esclusi i profughi, si può capire, si vede un trasferimento ciclico, prima i piemontesi vanno a Napoli a liberarli dalla schiavitù dei Barboni e poi il ritorno alla Fiat con una mentalità condizionata. Si potrebbe definire Torino la Napoli del nord come Napoli la Torino del sud con Vittorio Emanuele che dà a sposare la bella Rosina a Scarpetta, il cornuto contento alla san Giuseppe, ed i tori come i buoi sono appunto cornuti.

Sembra un lavoro di ricamo all’uncinetto ma intanto anche oggi abbiamo mangiato ed il problema principale è risolto.

lunedì 8 maggio 2017

Il callo pestato.


Potenza di fuoco, la realtà un callo pestato, miriadi di stelle s’accendono e pulsano, il piacere d’urlare sguaiato, fa male ma è solo un pensiero, altrimenti il peggio scorticherebbe viva la pelle e quel che sta sotto, parole si sa ma non sapere è meglio, visuale di un cornuto per corrispondenza, valle a capire ste cose, come si fa?

Un rebus, un indovinello, ebbene sia, le parole si adattano che è un piacere, un gioco di sfere tra il più e il meno e meno e più non è, per ingarbugliare meglio il gioco catene pretenziose d’essere quel che non è, il meno ed il più buttiamoli a mare, che s’affoghino, quel che resta è nulla e appare il giorno, una pagina nuova, la infilo nella macchina e ricomincio a scrivere…

Stoccazzo d’Adamo ed Eva ma sfrusciato i coglioni, ci vuole un idea nuova, menarselo per niente, ficcare ficcare in un buco nella carta nella mente tarlo che rode e schizza l’inferno sul traghetto che attraversa il fiume, acqua passata, flusso di coscienza tra il burattino ed il burattinaio, nel teatrino s’alza il sipario ma la storia non è ancora stata scritta e gli attori non sanno che dire, “mettigli in bocca il cazzo e falli succhiare, oppure in culo e dagli…che ti frega?” non si vede altro, l’ispirazione ha davanti un muro di puro nulla, assenza di idea, non c’è nel mito oppure è sempre la stessa idea che è stata riscritta, bisogna vedere quel che c’è sotto, uno sguardo nella libertà e qui viene voglia di buttare carta e penna e rinascere, gira e rigira non si vede altro però l’idea mi piace.

domenica 7 maggio 2017

Il porco comodo.





Un filo delicato vien giù il ragno a domandare
sul tavolo pieno d’aria da plasmare
di là dalla porta stanze passate un grattacielo
di qua m’abbraccio al ragno per succhiare
il buon vino della fortuna
che mai per caso la cicala canta.
 
Poesia son le immagini che volano sulle parole…